Da qualche tempo acquisto libri quasi esclusivamente in librerie antiquarie, cioè in librerie che meritano questo nome. Prima di tutto ammiro il mestiere del libraio, una passione spesso tramandata e che resiste contro la cinica avversità di un tempo misero per i saperi, che in cambio dispensa l'accessibilità delle informazioni senza fatica, senza essersi messi in cammino, senza far crescere domande, senza mettersi in gioco. E mi piacciono i libri necessariamente impilati perché vomitati fuori da scaffali ricolmi, ma secondo una logica che ristabilisce un diverso ordine.
Se compro libri quasi solo dai librai, non lo faccio per un gusto antiquario che tutto sommato non mi appartiene, non fino in fondo. Lo faccio perché preferisco acquistare libri pubblicati in anni in cui l'editoria faceva ancora il suo lavoro, cioè quello di filtro culturale. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, l'editoria svolgeva ancora un lavoro principalmente culturale. Oggi, dopo quatto decenni di espansione dell'ideologia mercantile, la grande editoria è, con lauto profitto, ancella del mercato. Non è cultura, è consumo. L'ideologia mercantile si è affermata ovunque.
Il pregevole lavoro di Collotti sul nazismo (La Germania nazista), per esempio, non è più stato ripubblicato da Einaudi. E il motivo è chiaro: non è profittevole, non è commerciabile. Non è caviale per le masse. Per l'individuo-massa lusingato e instupidito dal nuovo ordine digitale. Proprio Einaudi è diventata una succursale del politicamente corretto. E il Pisacane di Nello Rosselli? Vuoi mettere Zelensky, Vespa e Gramellini? Oppure sono le dimensioni della fanbase a decidere cosa sia degno di essere pubblicato, merce da vetrina che non necessita neanche di essere letta, visto che la lettura meditata, riflessiva, lenta, è stata cancellata dall'eterno presente del capitalismo digitale.
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