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La sinistra anticapitalista diventa protezionista e trumpiana?

 

Chi lo avrebbe detto ma sembrerebbe proprio che in Europa in seno a quella stessa sinistra che aveva tifato Sanders si stia facendo strada una certa positiva curiosità nei confronti delle politiche economiche protezionistiche di Trump, nella convinzione che queste per lo meno rompano con i dogmi del neoliberismo egemone. “Interessante. Stiamo a vedere come va avanti”. É il caso della diffusa ricezione, in ampi settori della sinistra anticapitalistica, della decisione di Trump di firmare il decreto per il ritiro di Washington dal TPP (Trans-Pacific Partnership), l'accordo di libero scambio tra gli Usa e il Canada e altri dieci Paesi del Pacifico (Australia, Brunei, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam).  È un cortocircuito, ma è un fatto, che il multimiliardario sta suscitando sia pur caute aspettative proprio in chi più vuole cambiare la rotta della più disumana globalizzazione tardo-capitalistica. Dopo almeno tre decenni di capitalismo sempre più selvaggio e i danni della governance monetarista sembra che anche a sinistra qualcuno tiri un sospiro di sollievo. Lo si ammette solo dopo aver messo le mani avanti: “Trump non mi piace, però…”. In frasi di questo tipo, come è noto, quello che conta sta dopo l’avversativa. È inconfessabile, ma Trump piace. Io, invece, non userò mezzi termini e non li ho usati in questi giorni discutendo in alcuni casi animatamente con amici: di diverso parere: sono allibito.  Così si riesce persino a presentare come saggia e imparziale apertura l’enormità di accreditare come uomo bene o male di rottura il magnate antisindacale per eccellenza, la cui elezione negli Stati Uniti ha fatto esultare per primi neonazisti e suprematisti bianchi. Quello che mi preoccupa davvero è che a sinistra si stia facendo strada un umore di fondo – che porta a guardare a Trump con possibilismo, e che si potrebbe riassumere nell’idea che l’economia conta più dei diritti e li preceda. Ma con Trump, che dei diritti fa davvero strame, questa idea passa ad uno stadio ulteriore e legittima la questione di quanti diritti siamo disposti a cedere per raddrizzare l’economia (ma poi, la raddrizziamo?). Mi spaventa che una parte della sinistra abbia scorporato a tal punto l’economia dai diritti: evviva l’uscita dal TPP e pazienza per quel muro contro i messicani, per le posizioni (e prime misure) su aborto, sui diritti omosessuali e LGBT ecc. Ce ne vuole davvero per arrivare a strizzare l’occhio a Trump. Trump che “bene o male”. Trump perché “Hillary non era mica meglio”. Trump perché anche il Partito Democratico USA è ormai parte dell’establishment (ma va?) In tempi di crisi è fin troppo facile per i demagoghi sbandierare falsamente il vessillo dell’anti-imperialismo, ma Trump non è la risposta, non è l’atteso cambio di paradigma, è solo un cambio nell’allineamento, nella distribuzione e nel peso dei centri di potere. A beneficio di cosa? Dell’equità sociale? O piuttosto della grande industria che beneficerà di una generosissima deregulation parte integrante del pacchetto insieme alle tanto osannate politiche protezionistiche?

Non sono certamente io a dubitare che sia vitale un’alternativa alle disastrose politiche neoliberiste da troppo tempo egemoni ma pensare, per giunta da sinistra, che Trump rappresenti “bene o male” un'inversione di quel modello mi sembra davvero paradossale e un grosso errore di valutazione. Oltretutto il protezionismo non è di per sé un bene. Succedendo a Wilson nel 1921, il repubblicano Harding, isolazionista, sponsorizzato dai grandi magnati del petrolio, esordì con misure protezionistiche (isolazionismo, protezionismo, magnati, ricorda nulla?) Questo non impedì affatto ai repubblicani, che inanelleranno tre presidenze consecutive, di garantire indiscriminatamente, in un clima di corruzione senza precedenti (altro elemento che ricorre, visto che il clientelismo di Trump è già fuori scala), gli interessi della grande industria calpestando i diritti dei lavoratori. Non appena l’apparato industriale fu messo nelle migliori condizioni per espandersi a dismisura, l’iniziale protezionismo si prolungò senza contraddizione nel più sfrenato credo liberista. Quello che seguì nel volgere di pochi anni fu la deriva che trascinò gli Stati Uniti e il mondo nella crisi del ’29.

Le politiche protezionistiche non sono un bene in sé. Non lo sono se sganciate da un'adeguata carica di riformismo sociale, dall’equità sociale come obiettivo primario. Trump è interessato per caso all’equità sociale? Quali interessi esprime? Mi sembra un tragico ed evitabilissimo abbaglio.

(PPC su Critica Liberale, 25/01/2017)

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