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La questione meridionale tra Ottocento e Novecento

Con l'espressione "questione meridionale" si intende, a partire dall'unità d'Italia, il complesso delle problematiche collegate agli squilibri tra il Nord e il Sud del Paese. La questione meridionale, dunque, non nasce certamente nel Novecento. Essa nasce con l'unità d'Italia stessa, come conseguenza delle dinamiche che avevano caratterizzato il processo di unificazione e della preponderanza finale delle forze moderate, ma le sue premesse sono ancora più antiche.
Un momento significativo attorno al quale è possibile annodare la comprensione della questione meridionale è il massacro di Bronte
 L'episodio si colloca nel contesto della dittatura militare provvisoria instaurata dai garibaldini in Sicilia dopo la  spedizione dei Mille. I contadini avevano sperato che i garibaldini li liberassero dal giogo feudale al quale erano asserviti, ma le loro aspettative andarono presto deluse. Quando, nell’agosto del 1860, a Bronte, i contadini insorsero contro i grandi proprietari terrieri, Garibaldi, compiendo probabilmente un errore di valutazione, affidò la questione al suo luogotenente Nino Bixio, il quale passò a reprimere brutalmente la rivolta. I fatti di Bronte mostravano, in ogni caso, che Garibaldi non era disposto a sacrificare l’unità nazionale in nome della questione sociale e della questione meridionale. 

L'eccidio di Bronte serve molto alla comprensione della questione meridionale; da una parte perché, guardando indietro, attorno ad esso si rendono visibili le persistenti forze che agivano contro l'emancipazione delle masse contadine; dall'altra perché, guardando invece in avanti, si vede meglio come il neonato Regno d'Italia, alla cui unificazione proprio l'impresa garibaldina fornì un contributo decisivo, conservasse intatta quella inerzia. La questione meridionale, insomma, si prolunga secondo quelle logiche iniziali, sfociando nel brigantaggio e nella sua repressione (1861-65), che acuì ulteriormente lo strappo tra il Nord e il Sud del Paese Nonostante interpretazioni di segno diverso, un'ampia documentazione (fondamentale
 lo studio di T. Pedio, Brigantaggio meridionale (1806-63), editore Capone, 1997) restituisce la dimensione di rivolta sociale del brigantaggio, innescata dal risentimento per il potere dei latifondisti, rafforzatosi ulteriormente a seguito dell'unificazione. Sta di fatto che un moto sociale complesso venne trattato esclusivamente come fenomeno criminale.  Per reprimerlo fu impiegata la metà degli effettivi dell'esercito regio, sotto il comando del generale Enrico Cialdini. 

Le politiche economiche della Destra storica (1861-1876), imperniate sul liberismo volto a favorire la competitività dei prodotti dell'agricoltura specializzata padana sul mercato internazionale, favorirono indirettamente la persistenza nel Meridione del sistema economico-produttivo del latifondo, l'unico in grado di garantire un surplus di produzione e dunque di reggere la concorrenza sul libero mercato. E, insieme al latifondo, determinarono la conservazione anche dei suoi rapporti di proprietà e, dunque, della sua stratificazione sociale. Del resto, studi come quelli condotti da T. Pedio mostrano che la momento dell'unità al Nord e al Sud esistevano due sistemi industriali confrontabili; quello meridionale fu annichilito proprio dagli indirizzi di politica economica dei governi moderati (qui si veda, in particolare, importante Storia del Banco di Napoli di Luigi De Rosa).

Non diversamente, anche la svolta industrialista della Sinistra storica lasciò intatti i vecchi e radicati squilibri tra il Nord e il Sud. L'Ottocento si chiudeva in modo tumultuoso, con crescenti tensioni sociali di fronte alle quali la classe dirigente liberale si poneva in modo sordo adottando metodi repressivi. Sono in questo senso esemplificativi i moti di Milano nel 1898 contro il carovita, quando l'esercito regio, su ordine del generale Bava Beccaris, aprì il fuoco sui manifestanti con i cannoni ad alzo zero, facendo decine di morti e centinaia di feriti. La risposta ai fatti di Milano è il regicidio di Umberto I (29 lugllio 1900) commesso da Gaetano Bresci due anni dopo. Anche nel Meridione, e in particolare ancora in Sicilia, la risposta del sistema politico alle tensioni e alle rivendicazioni sociali fu di carattere repressivo. Il movimento dei Fasci siciliani venne soffocato dall’esercito. Alla strage di Giardinello (10 dicembre 1893) seguì ancora repressione.

Con l'età giolittiana (1903-1914) entriamo nella fase novecentesca della questione meridionale. Anche in età giolittiana gli squilibri tra il Nord e il Sud, lungi dall'essere riassorbiti, vennero consolidati. Verso il Nord Giolitti adottò una strategia aperta al confronto con i ceti sociali protagonisti della nuova realtà prodotto dall’industrializzazione, la borghesia imprenditoriale e la classe operaia; al Sud, invece, ricercò l’appoggio dei notabili locali e degli agrari proprietari dei latifondi, trascurando le esigenze della masse contadine diseredate. Lo sviluppo economico legato al decollo industriale, dunque, non coinvolse in modo uniforme tutto il Paese. Il Mezzogiorno ne fu quasi completamente tagliato fuori risultando interessato in misura più massiccia rispetto al Nord, nel primo quindicennio del Novecento, dalla “grande migrazione” diretta in prevalenza verso gli Stati Uniti. Tra il 1900 e il 1914 furono nove milioni gli italiani che lasciarono il Paese, l’80% dei quali proveniente dal Sud.
 Diverse furono le posizioni degli intellettuali dell'età giolittiana in ordine alla questione meridionale e alla sua soluzione. ​Mentre Francesco Saverio Nitti invocava anche per il Sud l'avvio del processo di industrializzazione, Giustino Fortunato, di idee liberiste, e Gaetano Salvemini, socialista e fiero oppositore di Giolitti, chiedevano una riforma agraria in grado di valorizzare la vocazione agricola del Sud. C'è da dire che nel 1912 la rete ferroviaria del Sud aveva in buona parte riassorbito il ritardo rispetto al Nord, mentre l'analfabetismo restava elevato.  Ma ad essere ormai radicamente diverso era il tessuto economico-produttivo.

Con la  Grande Guerra il divario tra Nord e Sud crebbe ancora. In primo luogo, l'industria bellica, concentrata soprattutto al Nord, ebbe uno sviluppo ipertrofico.  I contadini furono spinti a combattere con la promessa della terra, poi non mantenuta. La truppa dell'esercito italiano dislocato in Trentino e in Venezia Giulia nel maggio 1915 era formata in prevalenza da contadini analfabeti provenienti da tutte le regioni, ma accomuniti dall'estraneità alle ragioni del conflitto. Gli ufficiali, selezionati in base al censo, non erano in possesso di una preparazione militare altamente professionale e si faceva sentire la mancanza di quadri intermedi.
Nel dopoguerra, l'inflazione polverizzò gran parte dei risparmi dei meridionali. Nonostante alcuni indicatori ambivalenti durante il fascismo, nel complesso la Seconda guerra mondiale e la ricostruzione rafforzarono ulteriormente il primato industriale del Nord.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta, il "miracolo economico italiano" si accompagnò a un massiccio fenomeno migratorio dal dal Meridione al Nord del Paese. Nei cinque anni compresi tra il 1958 e il 1963 emigrarono oltre un milione e trecentomila persone.  Il miracolo economico ebbe, dunque, ancora una volta costi sociali e umani iniquamente distribuiti nella geografia del Paese. In questo contesto, non meno importante, e rivelatore, fu l'accordo italo-belga sottoscritto nel 1946, che prevedeva l'impegno del governo belga a vendere ogni mese all’Italia non meno di 2.500 tonnellate di carbone; l'Italia, in cambio, si impegnava a garantire al Belgio 1.000 minatori immigrati. La manodopera provenne soprattutto dal Sud e si trovò a lavorare in assenza delle basilari tutele in termini di sicurezza e prevenzione. Emblematico il gravissimo incidente avvenuto l’8 agosto 1956, quando in uno dei pozzi della miniera di carbone di Bois du Cazier scoppiò un incendio, causando la morte di 262 persone, 136 dei quali italiani. 


Oggi la questione meridionale è chiusa? A parere di chi scrive, non pare che sia così. Ad essere caduto in disuso, piuttosto, è il nome, senza che sia venuta meno la sostanza dei problemi. Per ritrovare i termini odierni della questione meridionale si dovranno analizzare le politiche industriali che hanno condannato il Sud al modello dello sviluppismo, obbligando le comunità locali, come nel caso dell'Ilva di Taranto, a dover scegliere tra il Lavoro e la Salute, ossia due diritti costituzionali fondamentali, nei fatti giocati l'uno contro l'altro; un altro esempio è fornito dai lauti affari nati attorno alla chiusura del ciclo dei rifiuti, con la gran parte delle discariche nocive che si concentrano nel Sud del Paese, dando origine non ad una sola ma a più "terre dei fuochi". E questo deve essere riportato osservativamente, senza vittimismo, e anzi distribuendo le responsabilità, perché i processi che hanno portato al dissesto eco-ambientale di molti territori del Meridione, con gravi conseguenze per la salute delle comunità che vi insistono, chiamano direttamente in causa le responsabilità della classe politica dirigente locale. Ieri come oggi. Infine, chiunque non ami la discrasia tra i nomi e le cose deve ascrivere alla questione meridionale un capitolo recentissimo come l'autonomia differenziata.

(Per redigere questo articolo ho utilizzato conoscenze personali essenzialmente di Storia generale. Ho, inoltre, attinto alcune informazioni dalla voce molto dettagliata "questione meridionale" della Treccani online. Infine, un ringraziamento va a Santo Prontera per i suoi preziosi consigli,  di carattere sia bibliografico che interpretativo.)
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