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Le leggi razziali del regime fascista nel ricordo di Liliana Segre
Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, oggi senatrice a vita e testimone della Shoah. In questo passo racconta la ricezione delle leggi razziali, quando era soltanto una bambina di 8 anni.

Ero una bambina milanese come tante altre, di famiglia ebraica laica e agnostica: non avevo ricevuto alcun insegnamento religioso in casa. Nel settembre del 1938 avevo terminato la seconda elementare e conducevo una vita tranquilla e felice nel mio microcosmo familiare. Abitavo a Milano, al numero 55 di corso Magenta, con mio papà e i nonni Olga e Pippo: dolcissimi, molto amati. Mia mamma era morta quanto io non avevo ancora compiuto un anno, e mio papà – che nel 1938 aveva trentanove anni – era tornato a vivere nella casa dei genitori.

Non avevo mai sentito parlare di ebraismo quando, una sera di fine estate, mi sentii dire dai miei familiari che non avrei più potuto andare a scuola. Ricordo che eravamo a tavola. Ricordo i loro visi ansiosi e affettuosi insieme: mi fissavano negli occhi mentre mi comunicavano questa notizia che a me suonava incredibile. Io frequentavo una scuola pubblico, ero anche una discreta scolara, non vedevo motivi per essere espulsa. “Perché? Cos’ho fatto di male?”, chiesi, e intanto mi sentivo colpevole, colpevole di una colpa che mi restava sconosciuta.

Solo negli anni capii che era la colpa di essere nata ebrea: colpa inesistente, paradosso artificiale ma allora spaventosamente reale.

Mio papà cercò di spiegarmi che le nuove leggi razziali avevano espulso tutti gli studenti ebrei dalla scuola elementare fino all’università, e così pure i maestri, i professori, gli impiegati degli enti pubblici, i magistrati, gli ufficiali. Perfino i professionisti, avvocati e medici, potevano esercitare esclusivamente con clienti ebrei. Era troppo difficile per me comprendere un evento simile. “Ma perché”, riuscivo solo a dire.

E intanto ero diventata una diversa, insieme a quella minoranza di italiani di religione ebraica trasformati all’improvviso in cittadini “di serie B, separati dalla società civile ed esclusi dalla realtà di ogni giorno. Era come se davanti ai miei piedi si spalancasse un burrone, che negli anni successivi si sarebbe dilatato in un baratro profondissimo e pericoloso, fino a nascondermi definitivamente ogni bagliore di luce.

Di colpo non ero più quella di prima. Una delle umiliazioni più avvilenti era per me ascoltare i discorsi dei miei, quelle poche parole che allora si facevano sentire ai bambini: elencavano gli amici che ancora li salutavano per strada, contavano le rare manifestazioni di solidarietà ricevute. All’improvviso eravamo stati gettati nella zona grigia dell’indifferenza: una nebbia, un’ovatta che ti avvolge dapprima morbidamente per poi paralizzarti nella sua invincibile tenaglia. Un’indifferenza che è più violenta di ogni violenza, perché misteriosa, ambigua, mai dichiarata: un nemico che ti colpisce senza che tu riesca mai a scorgerlo distintamente. (Emanuela Zuccalà (a cura di), Sopravvisuta ad Auschwitz: Liliana Segre, fra le ultime testimoni della Shoah, edizioni Paoline, Milano, 2005)

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