A proposito della "buona scuola aperta anche d'estate"
L’apertura estiva delle scuole è idea che si riaffaccia periodicamente e gioverà allora una riflessione non parziale. Anche perché la proposta è accompagnata da una serie di luoghi comuni che sarà bene dissipare. Si scomodano illustri sociologi – forse illustri, renziani di sicuro – pronti a far notare che gli insegnanti sono sì malpagati, ma sono anche tra i pochi lavoratori ad avere due mesi di ferie l’anno. Così si rinverdisce la vox populi secondo la quale gli insegnanti sono dei privilegiati e si persegue la vecchia e cara strategia di mettere le classi di lavoratori l’una contro l’altra mentre si tolgono diritti a tutte. Dirò subito che non troverei scandalosa in sé la proposta dell’apertura estiva, non fosse per la cornice entro la quale questa proposta matura e per il fatto che viene supportata con argomenti spesso privi di fondamento se non palesemente falsi. In realtà siamo in presenza di un lunghissimo elenco di semplificazioni.
Proviamo solo a cominciare. Primo, le ferie. Un insegnante di ruolo ha diritto non a due mesi di vacanza, come afferma il sociologo di scuola renziana, ma a 30 giorni di ferie. Una volta terminati gli eventuali esami di Stato, generalmente intorno a metà luglio, almeno in linea teorica il docente rimane a disposizione della scuola fino alla data di inizio del periodo di ferie. Affermare che gli insegnanti hanno due mesi di ferie è un’inesattezza che lascia pensare che la categoria abbia una specifica e insopprimibile vocazione balneare. Oltretutto posso assicurare che arrivati a metà luglio dopo essere stati impegnati con gli esami di Stato un periodo di riposo è tutt’altro che un capriccio. Si tratta di una fisiologica necessità. Quello dell’insegnante è, ed è sempre più, un lavoro non privo di effetti usuranti. E fa davvero specie che proprio mentre si moltiplicano gli studi che mostrano l’elevata e crescente incidenza del burnout si possa continuare ad affermare con leggerezza che gli insegnanti fanno troppe vacanze. Si vede, dunque, come la proposta e l’autorevole sostegno alla “buona scuola aperta anche d’estate” poggi su presupposti e argomenti inesatti, quando va bene.
Spostandosi dalla prospettiva degli insegnanti a quella dei discenti (nonostante le infelici sorti della scuola pubblica voglio ostinarmi ad usare ancora questo termine) le cose non vanno molto meglio. Se è vero che gli studenti italiani fanno quasi tre mesi di pausa estiva, anche la percezione di questo dato va ovviamente corretta (e lo fa notare anche il sociologo renziano) alla luce della distribuzione dei giorni di ferie in Paesi diversi. In altri sistemi scolastici, si prenda quello britannico o tedesco, i giorni di vacanza nell’arco dell’anno scolastico sono più o meno gli stessi, ma sono spalmati durante l’anno, con il risultato che le vacanze estive sono più brevi. Va detto che la differenza poggia su una ragione di fondo che non dovrebbe essere sottovalutata: il clima. Eh si, il clima. Perché a parità di giorni di vacanza nell’anno, la consolidata impostazione italiana di concentrarne in numero maggiore nel periodo estivo trova una validissima ragione non nella già evocata e presunta vocazione oltranzista alla villeggiatura dei docenti italiani, ove volessimo estenderla anche ai ragazzi e alle loro famiglie, bensì proprio nelle diverse condizioni climatiche nei Paesi mediterranei rispetto all’Europa continentale e Nordica. Chiunque abbia riflettuto un minimo su questioni di questo tipo si rende conto che il clima condiziona i ritmi di una comunità.
Insomma, ancora una volta l’omologazione a un modello unico non è sempre e necessariamente una buona cosa, laddove sussistano differenze a livello nazionale che non sono affatto prive di valide ragioni. Come se non bastasse, l’omologazione non sembra toccare anche quella che dovrebbe essere la dovuta contropartita: i diritti. Se vogliamo ipotizzare che i docenti italiani debbano stare a scuola anche d’estate, perché così accade nel resto d’Europa, allora, è lecito osservare, si dovrebbe farlo in condizioni allineate agli standard europei. In termini di: stipendi, tanto per cominciare, e poi comfort, spazi, dotazioni. Purtroppo è forte il dubbio che non esista alcuna volontà politica di garantire tali condizioni. Si pensa, piuttosto, all’apertura estiva sul modello europeo… ma in condizioni tutte italiane. Iniziamo dagli stipendi: quelli degli insegnanti, questi insopportabili privilegiati, sono bloccati da quasi dieci anni. In termini di potere d’acquisto reale significa una perdita netta in busta paga di trecento euro al mese. In altre parole, un insegnante di ruolo che all’inizio della sua carriera oggi percepisce uno stipendio base di circa 1.300 Euro al mese dovrebbe prenderne 1.600 con gli adeguamenti necessari. Certo, dimenticavo il bonus annuo di 500 Euro per l’aggiornamento professionale. Prescindiamo anche dal fatto che si tratta appunto di un salvadanaio dedicato e spalmiamolo sull’anno: fanno una quarantina di Euro al mese, mentre in busta paga ne mancano come abbiamo detto non meno di trecento. Avremo allora un tipico esempio di come paternalistiche elargizioni abbiano per l’erario un costo nettamente inferiore a quello che originerebbe dal riconoscimento dei diritti. L’aumento dovrebbe arrivare nel 2018 e ammontare a circa 85 Euro mensili: anche in questo caso molto inferiore alla compressione subita dai salari e agli effetti dell’inflazione.
In conclusione, se si vogliono tenere aperte le scuole d’estate perché così va l’Europa a me va anche bene, ma lo si faccia in condizioni europee. Se invece si vogliono tenere docenti e studenti a boccheggiare dal caldo in strutture spesso fatiscenti, all’opposto di quanto accade nell’Europa continentale e Nordica, nel quadro di una costante politica di disinvestimento nei confronti della scuola pubblica, significa che si sta ancora una volta cercando di mortificare la categoria degli insegnanti, proseguendo la strategia di demansionamento già avviata in cambio delle stabilizzazioni della “Buona scuola”.
(PPC su Critica Liberale, 22/07/2017)