Oggi l’ostentazione sistematica e “trasgressiva” della diversità non è affatto progressiva, né liberatrice. L’odierno progressismo, armato delle sue strutture discorsive politicamente corrette, la utilizza volentieri e con molto profitto per traslare il problema dell’uguaglianza e del suo riconoscimento interamente sul piano individuale, frammentando l’identità in una miriade di possibilità tutte completamente disarticolate dall’ossatura sociale che le produce (un effetto: proliferano i termini per le identità comportamentali e “di genere”(tendenzialmente anglofoni, ovviamente, perché è il cuore economico a dettare i modelli linguistici imponendoli alle periferie), mentre si restringe il lessico per le emozioni). Ovviamente la “libertà” con la quale si rimane è in fondo una libertà del tutto esteriore, di costume (che io di certo non contesto), non una vera libertà di essere, perché è deprivata dell’essere sociale, la cui questione si mira a rendere persino impossibile porre e pensare. Il resto ce lo mette come sempre lo spontaneismo della stupidità.
Per questa via si riesce egregiamente a rinnovare anche il gioco illusorio della contrapposizione generazionale, flettendolo verso una dialettica falsata: giovani o giovanissimi figli che in nome della difesa della diversità - giusta se non fosse appunto usata per annullare la conflittualità sociale risolvendola interamente nella libertà individuale comportamentale e esteriorizzata, che per altro è molto meno dei diritti individuali seriamente intesi - avvertono come troppo tradizionalisti anche genitori che non lo sono per nulla… (non si sa mai che dietro il velo di Maya dei diritti individuali neoliberali i giovani scoprano la lotta di classe). L’asse conservatore/progressista è interamente riposizionato nel campo conservatore e riflette in realtà una tensione dialettica tutta e solo interna all’elaborazione culturale delle classi dominanti.
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