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Fuori dalla scuola gli interessi contrari alla didattica

 

Pier Paolo Caserta

 

 

 

 

La scuola pubblica si trova su un piano molto inclinato e una decisa ripresa di iniziativa sarebbe più che mai necessaria. Sappiamo bene che le pandemie, come le guerre, sono acceleratori di processi. I due anni pandemici hanno fornito l’occasione per spingere ancora oltre la deriva mercantilistica della scuola pubblica: come se nulla fosse, l’istruzione pubblica è stata appaltata alle grandi multinazionali delle piattaforme.

Di fronte a questo unicum storico la risposta è stata quanto mai debole. Tranne poche eccezioni, ci si è appellati all’emergenza per giustificare lo stato di cose, legittimando una nuova versione del sempre riadattabile “There is no alternative”.

Il capitalismo digitale è l’ultima specializzazione del neoliberismo asse portante del neoliberalismo. Il modello neoliberale si è imposto nei sistemi pedagogico-educativi riuscendo infine a plasmare una scuola che approfondisce i divari, determina costanti perdite cognitive negli alunni e spacca la comunità educante. La comparsa della parola “merito” nell’intitolazione del ministero, ora MIM, in combinazione alla scomparsa dell’aggettivo “pubblica”, non è altro che l’ultimo coerente tassello di una lunga, programmatica spirale involutiva, ma non inventa nulla.

 

Come si è potuto ottenere un risultato così prodigioso? I fattori sono molti, ma in sintesi la formula magica è Distruggere Intasando: ingolfare la didattica, per disarticolarla dall’interno; in primo luogo generando una quantità di incombenze, mansioni, attività, che sempre più sovrastano i docenti, deviando energie fondamentali dalla didattica. Penso sia esperienza tangibile diretta di tutti gli addetti ai lavori – e dei loro familiari – che con meno di cinquanta, forse cinquantacinque ore settimanali sia oggi semplicemente impossibile sperare di evadere una mole di incombenze per altro sempre più scollegate dalla didattica, se non in conflitto con essa. Molte incombenze e attività che entrano tra le maglie sempre più larghe della didattica sono non soltanto inutili, ma anche dannose, perché sortiscono l’effetto di smembrarla. Esiste qui un aspetto quantitativo (amputazione delle ore di lezione e dirottamento di energie, e già è molto) ma anche un aspetto qualitativo, nel momento in cui si fa di tutto a livello sia sistemico che periferico per far entrare nella scuola e nelle classi soggetti (per esempio scrittrici e scrittori sbaciucchiati dal successo perché in effetti riproducono l’ideologia dominante) ai quali si finisce di fatto per delegare compiti e funzioni educative che sarebbero proprie della didattica, contribuendo a diminuirla.

Si farebbe presto a dire che il crinale della scuola è brutalmente contrario alla pedagogia. Più corretto, credo, evidenziare che il modello neoliberale imposto alla scuola pubblica, e la sua più recente specializzazione tecnocratica, hanno una loro specifica pedagogia. Occorre rifuggire il più ingenuo degli errori: il potere non ha mai sottovalutato l’importanza della scuola e gli architetti del nuovo potere tecnocratico non fanno certamente eccezione. La partita che si sta giocando non è soltanto economica, ma anche antropologica. Questo significa immediatamente che esiste, come terzo termine e cerniera tra i due, anche un livello pedagogico della partita, sul quale noi dovremmo con consapevolezza giocare. Bisogna prima di tutto cogliere come l’odierna tecnocrazia assuma su di sé il compito di una profonda ristrutturazione antropologica. Questo progetto può, da una parte, contare sugli strumenti estremamente pervasivi messi a disposizione dal capitalismo digitale, che del potere tecnocratico costituisce l’ossatura economica; dall’altra si avvale di propaggini ideologiche di grande efficacia, quali si riassumono nelle sfere discorsive del politicamente corretto (neofemminismo, pari opportunità, ambientalismo all’acqua di rose, diritti individuali neoliberali e, da ultimo, il transumanesimo). L’ultimo quindicennio, che ha visto l’affermazione trionfale del capitalismo digitale, è per un verso in continuità con le metriche neoliberali applicate alla scuola pubblica, ma deve anche essere visto nei suoi tratti specifici corrispondenti all’esito storico del neoliberalismo nella tecnocrazia neoliberale, quali si riflettono, per esempio, nella diffusa affermazione di una “pedagogia tecnomorfa”.

 

Se gli ultimi tre-quattro decenni hanno determinato il progressivo asservimento della scuola pubblica al modello neoliberale, hanno al contempo preparato il terreno per l’ulteriore, recente, torsione tecnocratica, il cui risultato più rilevante deve probabilmente essere ritrovato nella nascita di una vera e propria pedagogia tecnomorfa. I suoi cardini possono essere riassunti in alcune idee collegate. In primo luogo, non soltanto l’uso della tecnologia nella didattica è rappresentato come irrinunciabile e imprescindibile, ma la tecnologia è in linea di principio virtuosa e “purché ben usata” costituisce automaticamente un vantaggio per la didattica. In secondo luogo, tutte le volte che si parla di didattica innovativa il carattere “innovativo” si intende legato in via esclusiva alla tecnologia e al suo impiego, con alcuni corollari, che vanno dalla demonizzazione della “vecchia” lezione frontale alla tesi che il docente-intrattenitore non possa non scendere sul terreno degli allievi-clienti-utenti e fare, quindi, didattica con i meme.

In questa cornice pedagogica, che assume per lo più un carattere informale e “di sfondo”, come accade per le impostazioni ideologiche, il misurarsi con la Tecnica e con i suoi apparati non è finalizzato, come sarebbe invece auspicabile, a suscitare lo sviluppo di una posizione critica da parte del discente, bensì a legittimare la tecnocrazia stessa. Tipicamente, la dilagante tecnolatria lascerà spazi di critica solo periferici, che si muovono sempre all’interno del paradigma e non mettono sostanzialmente in questione l’ideologia dominante. L’unico criticismo consentito riguarda gli usi opportuni da fare del mezzo, ma non si intende sollevare il problema che la Tecnica sia diventata l’essenza, il mezzo per impostare qualsiasi problema e, quindi, in definitiva, un valore in sé. Ci si guarda bene dall’esplicitare che si è imposta una specifica pedagogia, per lo più non dichiarata e non codificata, nella quale la Tecnica è sia la precondizione che lo scopo. Un riflesso immediato, sebbene per nulla esaustivo, dell’ingresso della tecnocrazia nella scuola si ritrova nel fatto che si potranno agevolmente reperire le risorse per l’ennesima, inutile lim ma si dovranno elemosinare i fondi per sistemare un muro che sta per cadere. Che ora si chiami PNNR è fatto solo contingente. Contro chi sollevi obiezioni (una minoranza anche tra gli educatori, a dire il vero) sono pronti i soliti dispositivi di silenziamento, e cioè le accuse, sempre efficaci, di essere antiquato, di non essere al passo con i tempi, o di volersi a tutti i costi contrapporre a una cambiamento inevitabile.

Nella visione tecnocratica – ma dovrei meglio dire “vision”, chiedo venia – la scuola deve servire a plasmare il tecno-suddito, pronto ad accettare l’eterno presente della Tecnica e del Mercato. In questo quadro diventa essenziale la rimozione “orwelliana” di contesti e contenuti, in una parola della profondità storica, che si ottiene amputando la didattica e disinnescando le potenzialità trasformatrici insite nella relazione discente-docente, dopo che il primo è stato ridotto a cliente e il secondo è stato sovrastato da incombenze didatticamente immotivate e reso mero esecutore del potere tecnocratico.

 

Anche sul fronte della scuola, è il momento di porre con chiarezza strategica le questioni di fondo come premessa per promuovere istanze e azioni concrete. Gli aspetti salariali sono certamente fondamentali, ma non devono essere visti isolatamente. In gioco c’è, come sempre, molto di più, c’è una partita complessiva, che non è solo economica, ma anche antropologica e pedagogica; e che dunque andrebbe giocata su un piano complessivo. Al punto in cui ci troviamo, o si fornisce una riposta, o lasciamo definitivamente la scuola pubblica agli interessi privati che sempre più l’hanno efficacemente colonizzata. Pronta ad essere stritolata dalla morsa tecnocratica. Se ancora vogliamo evitarlo, nelle sedi di confronto collettivo occorre porre in modo molto chiaro una questione dirimente, dalla quale tutte le altre derivano: pretendere la chiara ed esatta quantificazione del carico di lavoro effettivo che oggi grava sulle scuole e sui docenti. A quel punto, infatti, un adeguamento salariale commisurato ai carichi di lavoro – nonché al carovita e al rincaro delle bollette che ha colpito i Lavoratori e le famiglie nell’ultimo anno e mezzo, come conseguenza di una guerra che le classi lavoratrici europee stanno pagando a carissimo prezzo – e quantificabile in non meno di quattrocento euro netti in più in busta paga subito, diviene condizione di certo necessaria ma non ancora sufficiente. La via maestra deve infatti essere l'individuazione e la progressiva espulsione dalla scuola di tutti gli interessi estranei alla didattica.

(articolo pubblicato su Il Lavoro di gennaio 2024)

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